Un secolo fa quella che oggi appare come una delle mete turistiche più caratterizzanti di Roma, la successione imponente dei Fori Imperiali, era quasi inesistente. All'inizio dell'800 – durante l'occupazione francese – era stata messa in luce una parte della Basilica Ulpia unendola allo stretto scavo preesistente intorno alla Colonna Traiana. Qualcosa poteva vedersi anche del Foro di Augusto dopo gli scavi condotti nel 1842 dall'architetto francese Toussaint Uchard. Le "Colonnacce" – parte del Foro di Nerva – emergevano a metà altezza dalla strada incastonate in un edificio posteriore. Era certamente un quadro frammentato e il resto rimaneva coperto dalla fitta tessitura del quartiere Alessandrino. Furono le grandi demolizioni del regime tra il 1924 e il 1940 che portarono alla luce la maggior parte di quanto oggi è visibile creando Via dell'Impero. Di qui il titolo della mostra che aprirà il 23 luglio ai Musei Capitolini: L'invenzione dei Fori Imperiali. Demolizioni e scavi: 1924-1940. "Invenzione", dunque, nel suo doppio senso: quello etimologico di rinvenimento, ma anche quello più moderno di costituzione di una nuova realtà, che prima non esisteva e che solo dalle demolizioni selettive prende un volto quasi con un atto creativo.Sappiamo bene, infatti, che questa fu operazione ideologica per portare in primo piano l'idea di romanità a scapito innanzitutto delle fasi di vita della città meno adatte a essere valorizzate nel clima del ventennio, ma spesso anche a scapito della stessa archeologia. I tempi degli sterri, infatti, non furono dettati dalla ricerca, ma dall'agenda politica, notoriamente assai più frettolosa, tant'è vero che i risultati di questi scavi sono maturati in pieno solo recentemente nell'ambito delle ricerche degli ultimi due decenni e ancora oggi si lavora a una piena edizione e comprensione di questi monumenti straordinari. Questa riflessione può sfruttare oggi la distanza storica sia per inquadrare il fenomeno nel suo contesto – non esiste una ricerca pura al di fuori del tempo e dello spazio – sia per recuperare per quanto possibile i dati persi a causa delle priorità e dei ritmi imposti da scelte di regime. Per nostra fortuna di quegli scavi rimane una documentazione fotografica di altissima qualità, anche se non sempre sistematica, che ci conserva un riflesso della frenetica attività con cui venne riplasmato il centro di Roma antica. Lastre di vetro di grandi dimensioni realizzate dai migliori professionisti dell'epoca – D'Amico, Reale, Faraglia, Calderisi – vennero scattate e ordinate nel nuovo Museo di Roma dove costituiscono un fondo di settemila immagini i cui positivi (stampe a contatto di qualità inimmaginabile per il moderno fotografo digitale!) sono ordinati in più di ottanta album. Una scelta molto selettiva, appena 64 immagini, viene ora proposta in mostra, ma molto opportunamente corpus è apparso da pochi mesi in un volume di più di 500 pagine edito da Electa (Fori Imperiali Demolizioni e scavi. Fotografie 1924-1940). Sono foto scattate per esigenze di documentazione tecnica e scientifica, ma pur sempre da professionisti dell'obbiettivo preoccupati anche della composizione dell'immagine. Al di sotto di una sottile patina trionfalistica lasciano trasparire un senso di spaesamento per l'identità di una città che cambia girando pagina in modo brusco e irreparabile, suggerendo un bilancio che doveva essere difficile anche per i contemporanei, o per lo meno per quelli meno inebriati dalla propaganda. Le riprese paiono quasi a una premonizione di quello che sarà il neorealismo: oltre ai monumenti e alle demolizioni, fissano anche – quasi per sbaglio – scene di vita, prospettive di case che tra poco saranno abbattute mentre i loro vecchi abitanti sono in attesa di essere trasferiti. È difficile trovare una coerenza tra questi scatti e le parole d'ordine correnti in quegli anni: le foto sembrano quasi scattate in un momento di distrazione. Eppure non è un caso isolato: in quegli stessi anni avvenne anche che fossero commissionate dal Governatorato mostre di pittura sulla Roma che spariva. Anche di queste opere contemporanee è esposta in mostra una scelta tratta dalle collezioni del Museo di Roma: troviamo nomi noti e meno noti, come Michele Cascella, Maria Barosso, Lucia Hoffmann, Giulio Farnese e Pio Bottoni, tutti legati alla Scuola Romana. Nei più sensibili, come nella veduta di Mario Mafai del Foro di Traiano, si legge la stessa nostalgia per quel che andava perduto che traspare dalle foto: un tratto in verità assai poco futurista. Lo stesso Museo di Roma, in fondo, deve la sua nascita e le sue preziose collezioni ai drastici mutamenti che esigevano che la memoria di ciò che spariva fosse in qualche modo preservata. In quegli anni, nonostante il clima poco favorevole al libero pensiero, esistevano ritagli – certo marginali e secondari – in cui era possibile una qualche autonomia di giudizio. Per rimanere in tema si può ricordare per esempio che tutti gli archeologi del tempo frequentavano la Biblioteca di Archeologia e Storia dell'Arte di Palazzo Venezia e tra essi se ne contavano alcuni notoriamente non troppo allineati. Eppure l'accesso – che come oggi si apriva sotto lo storico balcone da cui si affacciava il Duce – non era sottoposto a controlli particolari. Una situazione impensabile oggi, dopo gli anni di piombo e il terrorismo fondamentalista. È in queste "sviste" e piccole contraddizioni del regime che poterono sopravvivere germi di novità per la stagione democratica successiva.
"L'invenzione dei Fori Imperiali. Demolizioni e scavi: 1924-1940», Roma, Musei Capitolini dal 23 luglio al 23 novembre. Catalogo Palombi.
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